Autore: Arch. Laura Meloni
Se dovessi fare una fotografia della mia vita professionale oggi, 23 aprile 2019 sarebbe una foto non molto nitida, attualmente c’è molta confusione intorno alla figura dell’architetto libero professionista, figuriamoci intorno al ruolo dell’architetto donna.
Sento talmente forte questa incertezza che a volte nel tran tran quotidiano mi domando:
<<Come ci sono arrivata fin qua?>>
Relazioni al contorno
Io sono nata a Roma, di Febbraio, un sacco di anni fa, figlia unica, sono stata cresciuta da due splenditi trentenni degli anni ’70 che nonostante la crisi energetica, il terrorismo e la guerra fredda credevano nel futuro. Nati alla fine della seconda guerra mondiale, sono stati tirati su con molti sacrifici ma anche con tanta gioia e fame di prospettiva. Mia madre, maestra, mio padre camionista. A disegnarla così sembra una coppia variegata e forse lo è, però ho visto entrambi leggere tanto, informarsi, partecipare alla vita sociale e politica del nostro piccolo paese. Ricordo le domeniche mattina, quando dopo la messa andavo in sezione con mio padre, socialista da quando aveva vent’anni. I fratelli di mia madre invece, neanche a dirlo, erano comunisti.
Non ho conosciuto i nonni materni, mio nonno morì quando mia madre aveva un anno e mia nonna molto prima che io nascessi. Sono stata cresciuta dai mie nonni paterni nonno Peppe e nonna Peppinella, ed è stato bello. Nati all’inizio del ventesimo secolo mi hanno allevata come se fossi un supereroe. Mio nonno a quattro anni mi insegnò le tabelline,a 12 a portare la macchina, cambiare la ruota, pulire la calotta tutto compreso, tutto in segreto, tutto tra noi. Mia nonna, con le sue bellissime mani levigate come i cigli di pietra calcarea rosa dei nostri vicoli, parlava con me davanti al camino, mi emancipava. Lei , nata nel 1909 era per il divorzio, per l’indipendenza della donna, per un’autonomia morale e sociale che necessitava in primo luogo di un’autonomia economica:
<< Perché uno sbaglio non può essere per sempre e la libertà ha un costo che devi sempre poterti permettere. >> Forse c’era del rimpianto in lei ma io ero piccola e troppo innamorata di mio nonno per poterlo cogliere.
Loro raccontavano ed io ascoltavo, pane, salame e antifascismo.
Ma se tutto questo potrebbe essere abbastanza per giustificare una certa formazione culturale come ci arrivai a Valle Giulia? Bella domanda. Vi ho detto che sono nata a Roma ma non che sono cresciuta ad Acuto, piccolo e bellissimo paese del nord Ciociaria. Un paese affezionato ai suoi Amministratori, dal ‘46 al 1975 governato da un solo Sindaco, democristiano, professore di lettere, persona molto colta di cui so poco dato che quando la sinistra vinse con l’Ing. Pio Pilozzi io avevo solo 5 anni. La svolta fu determinante anche per la nostra scuola, guidata dal Direttore Tombolesi, un socialista rivoluzionario e appassionato, insieme i due portarono il tempo pieno ad Acuto. Un tempo pieno sperimentale, dove si facevano ricerche, disegni, rappresentazioni, si lavorava la cartapesta e si studiava il francese. Io mi ci trovai in mezzo, uscivamo tutti i giorni alle 16,40, e si andava a scuola anche il sabato. 44 ore settimanali , pensate adesso i miei figli ne fanno 27. In terza elementare, a storia, io capitai nel gruppo di approfondimento sulle abitazione dei diversi popoli che man mano studiavamo, le case, prima quelle degli assiri babilonesi, poi quelle degli egizi ed infine quelle dei romani, mi piacque tanto. Un giorno chiesi alla mia maestra chi era che “faceva” le case e lei candida rispose: “l’Architetto”.
Ed io mi avvitai estasiata intorno a quella bellissima parola, magica, sinuosa, antica, importante. Si caspita, io volevo fare l’architetto. All’uscita della scuola mi tuffai tra le braccia sognanti di mia madre e le dichiarai i miei intenti.
Ma ve l’immaginate voi una bambina di nove anni , di Acuto , sognare di fare l’architetto? Cosa doveva dirmi mia madre, forse disinnescare e dire vedremo? C’è ancora tanto tempo amore mio non avere fretta?
Cosa pensate abbia fatto? Magari credete che mi abbia assecondato confidando che non fosse possibile che a nove anni una pazza potesse decidere della propria vita. Vi sbagliate, non siete stati attenti, ho scritto braccia sognanti non a caso, perché mia madre, che non sapeva niente o quasi di architettura, mi prese molto sul serio e cominciò a comprarmi libri bellissimi sull’argomento, iniziò a sognare con me. Erano gli anni 70/80 tutto era possibile.
La scelta universitaria
Dalla terza elementare alla maturità scientifica fu un attimo, anni di formazione bellissimi, così come l’adolescenza e la prima giovinezza dovrebbero sempre essere. Dove era finito il sogno di fare l’architetto? Non se ne era mai andato. L’anno che presi la maturità sui giornali si faceva un gran parlare di quanto in Italia mancassero gli Ingegneri. Ci pensai. Il pensiero che entrambi le professioni fossero per lo più ad appannaggio maschile non mi toccava proprio. Ricordate? Ero stata educata alla possibilità, alla volontà ed alla fatica, non conoscevo pregiudiziali di alcun tipo. Pertanto quando mio padre mi sconsigliò di iscrivermi ad architettura le sue motivazioni mi scioccarono. Sostanzialmente mi avvertiva che il cantiere fosse un ambiente per uomini, che l’architetto se non fosse stato figlio di architetto sarebbe stato difficilmente preso in considerazione e che se pure avessi avuto la fortuna di qualche lavoro nessuno mi avrebbe mai pagato. Ehhhhh? Problematiche di genere, di classe sociale e di categoria professionale in Italia? Ma non s’era detto che ero un supereroe? Una supereroina a cui nulla era impossibile?
Non ci fu discussione, mi iscrissi ad architettura.
La libera professione
Delle difficoltà incontrate lungo il percorso universitario non ne parlo, non mi credereste, vi do solo qualche coordinata, vecchio ordinamento, La Sapienza. Chi ci è passato capirà.
Dopo la laurea ho iniziato subito a lavorare. Ritrovai Marco, amico e compagno di studi del liceo e dei primi anni di università, architetto di talento, raffinato ed elegante. Anche lui non doveva pensare tanto male di me e così con coraggio ed incoscienza fondammo M+M. Avemmo subito la fortuna di poter lavorare su progetti importanti e senza risparmiarci avviammo la nostra attività. Poi un giorno venne a studio vestito da uomo della mia vita, da padre dei miei figli e lo ammetto persi un po’ di lucidità ma d’altra parte anche gli architetti, a volte, si innamorano.
Fu subito chiaro che il tempo del cantiere era la vera sfida, ovvero realizzare il progetto senza tradire la ricerca fatta a studio. All’inizio l’affrontammo insieme poi con il crescere degli impegni mi ritrovai cantieri da gestire da sola, direzioni dei lavori difficili e notti insonni. Affrontai tutto con coraggio e determinazione, anche la gravidanza non mi impedì di salire sui ponteggi e continuare a lavorare fino al giorno prima della nascita di Giovanni.
Poi nacque Giovanni e tutti i miei dubbi esistenziali svanirono, mi scoprii mamma, femmina, chioccia, persi la testa. Si persi la capacità di concentrazione, l’asse della mia esistenza si destabilizzò, come dire, è come se non fossi stata più io, il mio cuore fuori di me. Dovevo prendermi cura di Giovanni, volevo stare con lui punto. Ma se tutte queste mie ultime parole non avrebbero avuto senso in altri paesi europei dove una professionista che ha un figlio viene sostenuta e protetta dallo Stato qui avere un bambino è quasi una colpa. Non lavori, non guadagni, non lavori e stai fuori. La cassa di previdenza dite? Cinquemila euro al compimento del sesto mese del bambino. E se lo studio associato si sostenne sulle spalle di Marco il fatturato crollò a testimoniare quanto il mio ruolo fin li fosse stato importante. Fu un momento dirimente quello, se avessi avuto la partita IVA personale e se soprattutto non avessi avuto il sostegno dei miei genitori non ce l’avrei fatta. Ho capito, solo molto tempo dopo, di quanto in realtà fossero cambiate le cose dopo la nascita di Giovanni tra me e la professione, continuai con caparbietà ma la gestione dei tempi e degli impegni si fece via via pressante, difficile. A studio arrivò Emanuela l’Arch Restante e successivamente nacque Sergio, il mio secondogenito preferito. Fatturato basso, prospettive buone, si andava avanti. Nelle notti che passavo con Sergio, io e lui, il latte e qualche telefilm australiano riuscii anche a studiare per il cosiddetto concorsone di Roma che passai ma di cui non si seppe più nulla. Sergio mi aveva rimesso a posto le sinapsi.
“Un supereroe può cadere, si può ferire ma poi deve rialzarsi, c’è pur sempre un mondo da salvare.”
Per educazione, formazione e attitudine personale sono stata sempre impegnata socialmente e politicamente e dopo aver maturato una certa esperienza professionale sono entrata a far parte del consiglio dell’ordine della mia provincia. Convinta di quanto l’Architetto sia indispensabile non posso che sentire sulla mia pelle quanto il momento sia tragico. Dalla riforma Bersani alla centrale unica di progettazione sembra quasi che il disegno comune della politica italiana sia l’abrogazione della libera professione. Per professione intendo l’attività lavorativa intellettuale. L’esercizio di alcune professioni è subordinato al conseguimento di una laurea specifica e al superamento di un esame di Stato abilitante. Tali prescrizioni, unitamente alla disciplina giuridica posta a regolamentazione della materia, mirano ad assicurare che i professionisti abbiano un’adeguata preparazione deontologica e tecnica e, nel contempo, a impedire che l’esercizio incontrollato della professione danneggi l’interesse pubblico. Una patrimonio da valorizzare poiché spesso proprio nelle attività professionali risiedono occasioni di crescita , di innovazione e di lavoro. Ma le cose non stanno andando proprio nella giusta direzione, nella nostra provincia, per esempio, le iscritte sono pari al 37% del totale, hanno un’età media di 46 anni contro l’età media degli uomini pari a 41 anni. Un’età media comunque alta che ci racconta di una difficoltà dei giovani laureati ad iscriversi ed iniziare la professione con un’evidente accentuazione tra le neo laureate.
Una professione che l’attuale regime fiscale spinge ad affrontare singolarmente con la così detta flattax che se non verrà presto estesa anche agli studi associati man mano gli stessi scompariranno. Se da una parte quindi c’è una semplificazione fiscale, dall’altra si incentiva il doppio lavoro per i dipendenti pubblici, si indeboliscono i raggruppamenti tra professionisti fiaccando la loro crescita, la loro competitività anche in relazione a prospettive di lavoro nei mercati esteri.
Eppure le tensioni sociali nelle periferie delle grandi città italiane ci raccontano altro, occorre un nuovo piano di edilizia popolare, un massiccio intervento sul patrimonio esistente ormai al limite.
Insomma continuo ad essere del parere che l’architetto sia indispensabile anche e soprattutto in un paese come l’Italia, il più bello ma anche il più antropizzato, il più mal ricostruito. Pensate, da un’indagine del CRESME su 15 milioni di edifici in Italia il 41% è stato costruito in autocostruzione, il 40% dai geometri, l’11% dagli Architetti e l’8% dagli ingegneri. Possiamo immaginare che nell’immediato futuro ci sia del lavoro? Possiamo risolvere la questione delle opere pubbliche dalla così detta “Centrale di Progettazione”? Abbiamo il diritto di aspettarci che gli architetti reagiscano? Posso dire, qui ,su questo blog che qualche tempo fa scriveva una sentita lettera aperta al Senatore Renzo Piano , di quanto mi abbia profondamente deluso, nelle sue azioni e di più nel suo silenzio? Cosa credete abbia pensato un architetto italiano davanti alle dichiarazioni del capo del governo francese a poco più di 24 ore dalla distruzione del tetto di Notre Dame, con le quali annunciava un concorso internazionale di architettura per l’immediata ricostruzione? Probabilmente ha pensato che l’Architettura è una parola sulla quale avvitarsi,magica, sinuosa, antica, importante, e che l’architettura è cultura e attraverso essa si misura la visione e la grandezza di un popolo.
Nei nostri tg la notizia è stata data sostituendo concorso internazionale di architettura con gara internazionale perché come riportava la copertina di “L'Architettura - cronache e storia" di fine anni 70 l’Italia è un’AREA DISARCHITETTURIZZATA.
Quindi cari colleghi se non adesso quando? Quando trovare un’unità d’intenti e farci sentire, tutti, uniti, compatti? O rimaniamo così, ognuno con la propria storia, i propri sogni, le proprie fatiche ad aspettare ancora qualche momento magari qualche anno prima di andare via o cambiare lavoro?
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